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al Ghetto

le mie passeggiate
al Ghetto
la passeggiata al Ghetto era stata una delle prime passeggiate con gli amici e risaliva all'ottobre 2005. Il gruppo degli amici si è negli anni allargato e in tanti mi hanno chiesto di ripetere questo itinerario in una delle parti di Roma più ricche di storia. Questa volta i l numero dei partecipanti è stato da record: ben 51. Oltre a Santina ci sono stati Natalia, Alessandro, Tiziana, Paolo, Aurora, Pio, Annalucia, Carmelina, Bruno, Maria Grazia, Daniela, Emma, Sandro, Paola, Dario, Celeste, Angela, Giuseppina, Renato, Anna, Francesco, Valentina, Gabriele, Angelo, Rachele, Mauro, Marcella, Rossella, Angela, Marina, Sossio, Adele, Guido, Antonia, Claudio, Adalgisa, Filippo, Gabriele, Goffredo, Ornella, Sandro, Laura, Romano, Paola, Franco, Irma, Gino, Pina, Caterina, Gabriele, Luigi.
                                                                                                                                                   12 gennaio 2014
Ai nostri giorni del vecchio ghetto rimangono poche tracce, ma l’anima dell’antico quartiere è sempre viva; ancora oggi in questa parte di Roma conserva un’atmosfera particolare, una miscela di storia, architettura e tradizione: una realtà sempre viva, una zona urbanistica memoria di un’epoca e della storia di un popolo.
Storia del Ghetto di Roma
Esteso tra monte Cenci ed il Teatro di Marcello, come parte integrante del rione S. Angelo, lo storico quartiere del ghetto, pur avendo perduto l’originale mortificante significato di “serraglio degli ebrei”, rappresenta ancora oggi il simbolo della Roma israelita, ambiente ricco di attività commerciali e custode della tradizionale cucina giudaico-romanesca. Il ghetto di Roma è stato una entità storico-urbanistica limitata a tre secoli di vita, dal 1555 quando papa Paolo IV ne definì i confini, al 1848 quando Pio IX ne decretò l’abolizione. L’istituzione dei ghetti risale quasi ovunque al XVI secolo e fino ad allora gli Ebrei si erano concentrati in determinati quartieri volontariamente, come segno di unità, dato che essi in tutte le realtà urbane costituivano sempre una minoranza. Questi quartieri venivano chiamati "giudecche' e in alcune città di Italia erano costituiti da una o più vie o piazze, scelte liberamente dagli Ebrei. Il termine “ghetto” fa riferimento a un'antica fonderia di ferro, e precisamente alla gettata, in veneziano geto, pronunciato gheto dagli ebrei askenaziti, che si trovava nella zona dove gli ebrei risiedevano. Il vocabolo fu così usato per indicare la zona, inizialmente di Venezia, e successivamente di tante altre città, dove si concentravano gli ebrei. La presenza della comunità ebraica a Roma risale all'epoca pre-cristiana: durante i secoli imperiali e tardo-antichi la colonia ebraica era insediata principalmente a Trastevere, poi tra l’alto e il basso medioevo si era spostata verso la riva sinistra del Tevere e la cerniera di questo trasferimento è rappresentata dall’isola Tiberina; non a caso dopo l’anno mille il ponte Fabricio o Quattro Capi comincia ad essere chiamato anche “pons judaeorum”. La comunità divenne particolarmente consistente nel XIV e XV secolo a seguito dell'esodo degli ebrei dalla Spagna e dal Portogallo, tanto che si consolida la Contrada Judeorum e si registra l’esistenza di una via e di una piazza Iudea, che nel dialetto romanesco diventa Giudia. A Roma all'inizio del XV secolo, vivevano circa 2.000 Ebrei: 1.200 risiedevano in quello che poi sarebbe divenuto il ghetto; la colonia giudaica di Roma aveva scelto quell’ambito territoriale come insediamento privilegiato, attratta probabilmente dalle attività commerciali che si svolgevano nella zona. In sostanza si tratta della “Giudecca” che già esisteva in altre città italiane ed europee. La differenza tra Giudecca e Ghetto risiedeva nel fatto che la prima era una residenza preferenziale, il secondo invece un domicilio coatto; la prima era legata a motivi di sicurezza e salvaguardia culturale, il secondo un’imposizione umiliante. Questa differenza sostanziale fu toccata con mano dagli abitanti dell’area nel luglio 1555, quando con la bolla “Cum nimis absurdum” papa Paolo IV revocò tutti i diritti degli ebrei romani e ordinò l'istituzione del ghetto. Il serraglio degli ebrei, aveva una superficie di circa tre ettari, occupando un rettangolo che aveva per lati maggiori il Tevere e l’attuale via del Portico di Ottavia, mentre uno dei lati minori attraversava la piazza Giudea e l’altro raggiungeva dal fiume la chiesa di sant’Angelo in Pescheria.
L’area venne delimitata da un muro con "portoni" o "catene" detti della Rua, Regola, Pescheria, Quattro Capi e Ponte, che venivano chiusi dal tramonto all’alba. Agli ebrei era consentito girare per Roma soltanto di giorno ed era permesso di esercitare solamente lavori di basso grado, come quelli di stracciaroli, rigattieri o pescivendoli. Essi potevano anche esercitare prestiti a pegno e questa attività era naturalmente motivo di astio dei romani verso di loro. Una singolare restrizione riguardava anche il gioco del Lotto, in cui gli ebrei potevano giocare solo numeri bassi ed appartenenti alla stessa decina (da uno a trenta), tanto è vero che, quando accadeva che venissero estratte cinquine di questo tipo, i romani dicevano che in ghetto quel giorno era festa grande. Quando si recavano fuori del loro distretto, gli uomini dovevano indossare un panno giallo e le donne un velo giallo (lo stesso colore delle meretrici). Accadeva anche che durante il carnevale essi fossero oggetto di scherno da parte dei Cristiani ed obbligati a gareggiare in competizioni umilianti. Ogni sabato la comunità israelitica era obbligata ad ascoltare le prediche coatte, generalmente tenute dai frati domenicani, allo scopo di “convertire li giudei”. I luoghi preposti erano le chiese di S. Angelo in Pescheria, S. Gregorio della Divina Pietà e l’Oratorio del Carmelo: come racconta Giggi Zanazzo, gli ebrei però sembra usassero tamponi nelle orecchie per non ascoltare le prediche. Naturalmente, la gran quantità di popolazione che viveva in un'area così piccola, insieme all'indigenza della comunità, causò terribili condizioni igieniche. Il distretto, trovandosi molto in basso e vicino al Tevere, era spesso inondato: durante l’epidemia di peste del 1656, 800 abitanti su 4.000 morirono a causa dell'epidemia. Le cose iniziarono a cambiare con la Rivoluzione francese: nel 1798, le porte del Ghetto furono finalmente aperte, ma con la caduta di Napoleone si tornò alla segregazione. Verso la fine del 1825 il papa Leone XII ordinò che tutti gli ebrei abitanti negli Stati pontifici venissero nuovamente rinchiusi nei ghetti e che fossero ripristinati i vecchi divieti che regolavano i loro rapporti con i cristiani: “niun ebreo dimorante nel ghetto di Roma potrà assentarsene anche per un sol giorno se non è munito di licenza in iscritto”. L’aumento della popolazione impose però una rettifica dei confini del ghetto che fu ampliato includendovi via della Reginella e parte di via della Pescheria: furono aggiunti altri tre "portoni": quello della Reginella, di un altro tratto di Pescheria e il portone grande di piazza Giudia. Solo nel 1848, Pio IX ordinò l'apertura delle porte del ghetto che sarà abolito nel 1870 e vedrà la demolizione delle mura nel 1885. Gli ebrei romani furono liberi di lasciare il quartiere, e vennero restituiti loro gli stessi diritti civili della popolazione cristiana. La situazione abitativa non mutò però negli altri ventidue anni della Roma pontificia: dopo il 1870 appariva un quartiere in disfacimento, che sopravviveva solo grazie all’operosità della comunità, con case interamente aperte al commercio di tessuti, casalinghi e degli oggetti di “anticaje e petrelle”. L’immagine del ghetto di questo periodo è ben rappresentata negli acquerelli che Ettore Roesler Franz eseguì tra il 1881 ed il 1887. Il pittore della “Roma sparita” fornisce una precisa rappresentazione delle piazzette e dei vicoli del quartiere, mettendo sempre in risalto figure e scenari di vita quotidiana.
Il Percorso
Il Portico di Ottavia e S. Angelo in Pescheria
Sulla grande curva dell’attuale largo 16 ottobre 1943 sorgono i resti del Portico di Ottavia che costituisce l’ingresso principale al quartiere ebraico. Il Portico di Ottavia, l'unico conservato dei grandi portici che limitavano sul lato settentrionale la piazza del Circo Flaminio (gli altri erano il Portico di Ottavio ed il Portico  di Filippo), ebbe origine da quello già eretto da Quinto Cecilio Metello Macedonico nel 146 ed incluse i più antichi templi di Giunone Regina e di Giove Statore. Il rifacimento del Portico, ad opera di Augusto, ebbe inizio nel 33 a.C. e nel 23 a.C. doveva essere già compiuto e fu dedicato alla sorella dell'imperatore, Ottavia. Nel 203 d.C. fu ricostruito da Settimio Severo e Caracalla, come indica la grande iscrizione sull'architrave. Lungo, nella fronte, 115 metri e profondo 135, era ricco di trecento colonne con capitelli corinzi. Nel mezzo vi era un propilèo di nove colonne corinzie di marmo su due file, di cui restano in piedi due della fila anteriore e tre della posteriore. Ospitava luoghi di cultura, sale per spettacoli, concerti, biblioteche. La parte oggi visibile è il grande atrio centrale, un tempo rivestito di marmo.
Nel Medioevo, sulle rovine del portico, furono edificati un grande mercato del pesce e una chiesa, S. Angelo in Pescheria. Il mercato era chiamato Forum piscium o di "Pescheria Vecchia" e la pietra a destra del grande arco del Portico è quanto ne resta: come dice l'iscrizione, "Debbono essere date ai Conservatori (magistratura elettiva capitolina) le teste di tutti i pesci che superano la lunghezza di questa lapide, fino alle prime pinne incluse". Come si sa la testa è la parte migliore per la zuppa di pesce. S. Angelo in Pescheria fu edificata da Teodoro, zio del papa Adriano I Colonna, come rivela un'iscrizione dell'anno 780 conservata al suo interno e fu inizialmente dedicata a S. Paolo. Dopo il miracolo di S. Michele (apparizione sul monte Gargano, secondo la leggenda), Bonifacio II la intitolò all'Arcangelo ed ebbe nome "S. Angelo in foro piscium" in riferimento al mercato del pesce. Nel XII secolo la chiesa ebbe anche gli appellativi di "S. Angelo in piscibus" e "S. Angelo iuxta templum Iovis", ossia nel tempio di Giove Statore, che il monumento ospitava. Il campanile è del XIII secolo ed è dello stesso periodo la campana tuttora in uso. Su via del Foro Piscario si trova l’Oratorio dei Pescivendoli, costruito alla fine del XVII secolo: la facciata è ornata da una grande immagine di S. Andrea. Addossata al propileo del Portico di Ottavia, vi è la casa medioevale detta "Torre Fornicata dei Grassi", dal nome della famiglia che la acquistò dagli Orsini nel 1369. Sulla facciata principale, che si apre su via del Portico di Ottavia, vi sono alcuni frammenti di architravi romani incastonati sulla porta di accesso, sovrastati da una piattabanda di mattoni interi, secondo una caratteristica costruttiva del XII-XIII secolo. Alla destra della Chiesa di Sant'Angelo in Pescheria uno scenario di vecchie case costruite in età completamente diverse: sono case che delimitano l'antico tracciato del ghetto e sono strutture abitative costruite con materiali di reimpiego provenienti da materiale di epoca romana. Da questo punto si erigeva il muro perimetrale che si alzava dall’attuale via di Portico d’Ottavia a piazza delle Cinque Scole al Tevere (all'epoca privo dei muraglioni, eretti nel 1888). Lo slargo davanti al Portico è il punto dove, la mattina del 16 ottobre 1943, i nazisti disposero i camion con cui furono deportati gli ebrei catturati durante la razzia.
Nel cuore del vecchio ghetto
Via del Portico di Ottavia costituisce una sorta di Corso del Ghetto: su di essa si aprono molteplici esercizi commerciali di prodotti tipici e ristoranti che si richiamano alla tradizionale cucina ebraico-romanesca, con una felice sovrapposizione di immagini che offrono un caratteristico colore locale. Subito sulla destra di via del Portico d’Ottavia si apre via di Sant’Ambrogio, che prende il nome dalla chiesa che la tradizione vuole sia stata edificata sulle rovine della casa paterna del vescovo, come indicato dall’iscrizione posta sulla porta di un convento. Nel piccolo cortile seminascosto che precede l’atrio della chiesa, si trova una fontana del seicento la cui vasca è costituita da un sarcofago romano ornato da teste di leone.
Alla fine di Via di S. Ambrogio si giunge a piazza Mattei. La piazza prende il nome dai Mattei, che erano tra le famiglie cristiane le cui case erano adiacenti al Ghetto: essi avevano le chiavi dei portoni che venivano chiusi all'Ave Maria e riaperti la mattina dall'esterno. Sulle rovine del teatro di Balbo, i cui materiali vennero ampiamente riutilizzati, la potente famiglia fece erigere il primo importante edificio di quella che a metà del Cinquecento venne definita Isola Mattei. Gli interventi edilizi di questa, come di altre famiglie romane, denotano un grande potere economico derivato dalle attività mercantili, per sviluppare le quali si avvalsero di esperienza e capacità della comunità ebraica, offrendo in cambio la necessaria protezione. La facciata è caratterizzata da una finestra murata alla quale è legata una leggenda: si narra che uno dei duchi Mattei, giocatore incallito, una notte perse al gioco un'ingente somma. Il futuro suocero, venuto a conoscenza del fatto, gli rifiutò la mano della figlia. Il duca, ansioso di riscattare l'insulto, invitò nel suo palazzo il suocero ed organizzò un ricevimento fino all'alba. Durante la notte fece realizzare, dinanzi al suo palazzo, una splendida fontana e il mattino seguente invitò il futuro suocero ad affacciarsi dalla finestra, dicendo: "Ecco cosa è capace di fare in poche ore uno squattrinato Mattei!". In questo modo riebbe la mano della ragazza ma, in memoria dell'accaduto, fece murare la finestra. La fontana in oggetto è la Fontana delle Tartarughe costruita tra il 1581 e il 1584 dal fiorentino Taddeo Landini su progetto di Giacomo Della Porta. Il progetto originario prevedeva che i quattro efebi, progettati in marmo ma realizzati poi in bronzo dal Landini, che si ergono da quattro conchiglie di marmo che poggiano il piede su altrettanti delfini di bronzo, avrebbero dovuto sospingere altrettanti delfini nel catino superiore: queste sculture non furono mai poste in opera in questa fontana perché andarono ad ornare la Fontana della Terrina, allora situata in Campo de' Fiori ma che oggi si trova in piazza della Chiesa Nuova.
Le bronzee tartarughe sospinte verso il bordo del catino, nel quale si raccoglie l'acqua dello zampillo che ricade poi nella vasca sottostante, vennero aggiunte solamente nel 1658 dal Bernini, durante i lavori di restauro voluti da papa Alessandro VII.
Le tartarughe hanno avuto, nei secoli, un carattere piuttosto "vagabondo", poiché varie volte sono scomparse dalla loro sede ma, fortunatamente, sempre ritrovate: nel 1906, nel 1944, quando toccò ad uno "stracciarolo" (straccivendolo) ritrovarle e consegnarle in Comune, e nel 1981. Quelle che vediamo oggi sono soltanto copie, mentre le originali sono conservate nei Musei Capitolini. Da piazza Mattei si torna in via del Portico di Ottavia percorrendo via della Reginella. Non si conosce l’origine del toponimo: secondo alcuni dovrebbe riferirsi al tempio di Giunone Regina, ma la tradizione più diffusa vuole che si tratti del ricordo dell’elezione della ragazza più bella del rione chiamata appunto Reginella. La strada fu incorporata nel ghetto nel 1825, allorchè Leone XII volle allargare il quartiere ebraico per ragioni di igiene: lungo questa strada si può avere un'idea, insieme a quanto già visto in via di S. Ambrogio, della struttura urbana esistente nell’antico ghetto.

A seguire si hanno una serie di nuclei di diversi periodi; all’angolo con vicolo Costaguti sorge la casa quattrocentesca di Lorenzo Manilio. Non è il risultato di un progetto unitario, ma l’aggregazione di almeno tre corpi di fabbrica diversi per dimensione, stile ed età di costruzione, con un elemento che unisce tutte queste strutture: una grande fascia bianca che contiene iscrizioni e che gira tutt'intorno al palazzo che Lorenzo Manilio volle ad imitazione degli splendori dell'antica Roma. Fece incidere sul marmo, a lettere maiuscole, un testo in latino che dice: " URBE ROMA IN PRISTINAM FORMA(M R)ENASCENTE LAUR. MANLIUS KARITATE ERGA PATRI(AM) (A)EDIS SUO NOMINE MANLIANAS PRO FORT(UN)AR(UM) MEDIOCRITATE AD FOR(UM) IUDEOR(UM) SIBI POSTERISQ(UE) SUIS A FUND(AMENTIS) P(OSUIT). AB URB(E) CON(DITA) M.M.CCXXI L AN(NO) M(ENSE) III D(IE) II P(OSUIT) XI CAL(ENDAS) AUG(USTAS)", ossia "Mentre Roma rinasce all'antico splendore, Lorenzo Manilio, in segno di amore verso la sua città, costruì dalle fondamenta sulla piazza Giudea, in proporzione con le sue modeste possibilità, questa casa che dal suo cognome prende l'appellativo di Manliana, per sé e per i suoi discendenti, nell'anno 2221 dalla fondazione di Roma, all'età di 50 anni, 3 mesi e 2 giorni, il giorno undicesimo prima delle calende di agosto". Sulle architravi delle porte si legge il nome del fondatore ripetuto quattro volte, tre in latino e una in greco, mentre sulle finestre è inciso il motto "Ave Roma". Inoltre, il basamento dell'edificio è cosparso di reperti archeologici, quale un frammento di un antico sarcofago. La data dell'edificio segue l'uso romano, 2221 dalla fondazione della città (753 a.C.), anno della nostra era 1468.

Su vicolo Costaguti, si vede un tempietto del 1759 di pianta semicircolare e adornato da sei colonne dedicato alla Madonna del Carmine: si tratta di uno dei luoghi dove gli Ebrei erano costretti, il sabato, ad assistere alle prediche coatte, allo scopo di convertirli al cristianesimo. Il restauro è stato effettuato recentemente. In vicolo Costaguti è di notevole interesse uno dei passaggi, detti “trapassi”, comuni nell’epoca antica e medievale, che erano una vera gallerie che passavano da parte a parte interi edifici, a vantaggio della comodità del transito. Questo passaggio rappresenta una importante documentazione sull’urbanistica dell’antico ghetto: il passaggio in galleria termina infatti in un cortile dove si affaccia un insieme di case che rendono bene l’idea della realtà del ghetto. Piazza Costaguti è circondata da bei palazzi come il Palazzo Costaguti, costruito a metà 1500 da Carlo Lambardi e passato nel 1624 ai Costaguti. All'interno è presente un piano nobile articolato in otto sale affrescate con soggetti mitologici da pittori di talento quali il Lanfranco, Zuccari, il Cavalier d’Arpino, Guercino e il Domenichino.
Attraverso via in Pubblicolis e via S. Maria del Pianto si giunge quindi a piazza delle Cinque Scole: il nome porta il ricordo del palazzetto delle Cinque Scole o Sinagoghe che sorgeva in questo punto e che fu demolito nel 1910. Uno dei divieti del tempo del Ghetto consisteva nella proibizione di avere più di una sinagoga, indipendentemente dal numero degli ebrei e senza tener conto della estrema varietà di provenienze (catalani, aragonesi, siciliani e altri). La difficoltà fu in parte aggirata comprendendo all'interno di un unico palazzetto locali diversificati per i diversi gruppi. La piazza occupa un'area che, in passato, il muro del Ghetto aveva diviso in due parti: all'interno, piazza delle Scòle e una parte di piazza Giudea; all'esterno, vicolo dei Cenci, piazza dei Cenci e l'altra parte di piazza Giudea, che venne intitolata a S. Maria del Pianto. Sul lato meridionale della piazza sorge oggi il palazzo Cenci-Bolognetti. Antistante il palazzo si trova la Fontana del Pianto, fatta erigere da Gregorio XIII nella seconda metà del XVI secolo su disegno di Giacomo Della Porta, affinché, secondo il rescritto papale, "anche gli Ebrei avessero refrigerio dell'acqua e abbellimento" e così denominata perché originariamente situata presso la chiesa di S. Maria del Pianto, al centro di piazza Giudea.
Nel lato opposto, la Chiesa di S. Maria del Pianto, corrisponde all'antica S. Salvatore de Caccaberis (dalle botteghe di fabbricanti di catini e vasi di rame, in latino cacàbera), successivamente dedicata a Maria dopo la lacrimazione di una Immagine della Vergine, avvenuta, secondo la tradizione, a seguito di un fatto delittuoso del 1546 quando due giovani armati si stavano affrontando sotto gli occhi di una Madonna col Bambino raffigurata sotto un arco antico. Uno dei due, in procinto di essere trafitto, chiese la grazia della vita al suo nemico facendo appello ai suoi sentimenti di clemenza nel rispetto della Vergine Maria lì raffigurata. L’aggressore lasciò cadere il pugnale dalla sua mano ma l’altro, che prima era vittima, si fece carnefice di quello che ora era divenuto benefattore e l’uccise sotto gli occhi di Colei a cui prima s’era appellato. Davanti a tanta ingratitudine si racconta che l’immagine della Vergine abbia iniziato a piangere e che le lacrime siano state raccolte in un fazzoletto da un sacerdote che aveva assistito al fatto. L'evento ebbe grande risonanza e Paolo III vi edificò la chiesa e istituì la confraternita di Santa Maria del Pianto, mentre l’immagine fu staccata da quel muro e conservata nella vicina chiesa di San Salvatore.
La Sinagoga
Visibile da molti punti della città con la sua cupola quadrata, la Sinagoga o Tempio come la chiamano gli ebrei romani, rappresenta architettonicamente la riconquistata cittadinanza della comunità dopo la vergogna del Ghetto. Solenne nella struttura, con il massiccio volume centrale a pianta quadrata e la cupola a padiglione con il lanternino, è opera degli architetti Armani e Costa che la completarono nel 1904. Lo stile è un misto di Liberty e di arte babilonese, con evidente richiamo allo stile dell'epoca di costruzione e all'origine mediorientale della religione ebraica. Non presenta immagini, solo simboli: la Menorah, le Tavole della Legge, i Lulav. Le molteplici scritte in ebraico sono quasi tutte versetti della Scrittura che esaltano la sacralità del luogo. Sul Iato del Tevere, il muro della Sinagoga accoglie diverse lapidi di notevole interesse storico, tra le quali quelle che portano il lungo elenco di ebrei caduti nella Prima Guerra Mondiale e degli ebrei caduti alle Fosse Ardeatine.
Verso il Tevere
Sul lungotevere, nei pressi del ponte Quattro Capi (Ponte Fabricio), sorge la chiesa di San Gregorio in Divina Pietà. Si tratta di una chiesetta dedicata a San Gregorio perché nella zona sorgevano le case degli Anicii, nobile famiglia romana che ha dato i natali al Papa Gregorio Magno (590-604). La chiesa ha origini antichissime anche se le prime testimonianze certe sono del 1400. ll suo nome completo invece è dovuto al fatto che la chiesa, dopo il restauro del 1729,;fu data alla Congregazione degli Operai della Divina Pietà. Sulla facciata è stato posto dal 1858 il "cartiglio" che si trovava prima in un'altra parte del ghetto, davanti ad uno dei cancelli del muro ora scomparso. La scritta in ebraico e in latino, cita Isaia 65, 2-3: "Ho steso tutto il giorno le mani ad un popolo incredulo, che cammina seguendo le sue idee per una via non buona; un popolo che continuamente mi provoca all'ira". Il ponte dei Quattro Capi è detto anche "Pons ludaeorum" e collega con l'Isola Tiberina: anche se non faceva parte del ghetto, la presenza ebraica sull’isola è storicamente sempre stata molto forte, infatti qui aveva sede l’ospedale Israelitico che ancora vi mantiene un ambulatorio nei locali dello storico Palazzo Caetani. Sono anche presenti due piccole stanze adibite a Sinagoga dei giovani: qui gli ebrei romani andavano a pregare durante l’occupazione nazista.
Anche se del vecchio ghetto rimangono poche tracce, è sempre viva l’anima dell’antico quartiere; ancora oggi in questa parte di Roma conserva un’atmosfera particolare, una miscela di storia, architettura e tradizione: una realtà sempre viva, una zona urbanistica memoria di un’epoca e della storia di un popolo.
ricordo della passeggiata
foto di gruppo di Sossio, Dario e Angelo
© Sergio Natalizia - 2014
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